William Shakespeare era un uomo molto avveduto, nient’affatto genio e sregolatezza: tant’è vero che non morì povero con Ben Jonson né infilzato in una bettola come Christopher Marlowe. No, lui no. Mai un colpo di testa, mai un azzardo, mai un atto di cui pentirsi, mai una lite. Della sua vita si pochino: abbiamo sei firme autografe e due ritratti (che non si somigliano l’uno all’altro, naturalmente); sappiamo quando venne battezzato e quando morì, non quando nacque; sappiamo che cosa lasciò in eredità alla moglie (“il secondo miglior letto di casa”) e che cosa pretese in denaro dal figlio di un vinaio che voleva sposare sua figlia (e la sposò, in effetti, ma era un tipaccio: Shakespeare c’aveva visto giusto). Sappiano che venne chiamato a testimoniare per districare una questione di dote, tant’era equilibrato, e che chiese, pagò e ottenne il titolo di gentleman, anticamera d’aristocrazia elisabettiana, unica sua palese vanità (anche se lo fece a nome del padre, ex sindaco di Stratford, che aveva bei guai da nascondere dietro a quel titolo). Con i proventi della sua circospetta attività di socio della compagnia teatrale “Lord Chamberlain’s Men” (poi ribattezzata “King’s Men”, grazie all’intercessione di Giacomo I) comprò una vasta ma vecchia casa a Stratford, un piccolo appartamento a Londra e assai terre e decime (redditi agricoli) sempre intorno a Stratford. Poco, davvero poco per inquadrare il più grande genio teatrale dell’umanità. Eppure molto, davvero molto per essere certi che nell’Inghilterra tra il 1564 e il 1616 sia vissuto un tale chiamato William Shakespeare che ci ha lasciato in eredità trentasei testi teatrali. Forse trentasette; magari anche trentotto. Per lo più splendidi. E per essere certi che fosse un uomo avveduto.
Ecco perché, un po’ conoscendo Shakespeare, avvicinandosi a Sogno di una notte di mezz’estate (“A Midsummer Night’s Dream”) una domanda risalta subito più di altre: chi è il protagonista? Leggetevi il testo e – per quant’è scombinato e costruito su piani inclinati e intrecciati – vedrete che non è facile rispondere. E invece Shakespeare, artigiano senza grilli per la testa, lavorava sempre per “i suoi” attori e ognuno doveva avere un ruolo ben definito non solo dalle proprie capacità, ma anche dai rapporti di forza in compagnia. Richard Burbage era (doveva essere) il protagonista: aveva il doppio delle azioni degli altri. Edward Alleyn era l’antagonista: era entrato in compagnia dopo. William Kempe era il comico: anche se doveva avere un caratteraccio, visto che fu cacciato nel 1599 forse per essere sostituito da Robert Armin. John Heminge ed Henry Condell avevano i secondi ruoli: avevano quote minime ma erano amici di tutti. Sicché – per contratto – nei testi di Shakespeare dovevano esserci un protagonista, un antagonista, un comico e due secondi ruoli. Per dire: Riccardo III non è solo la più inquietantemente moderna tragedia di Shakespeare ma anche la sua più breve e quella nella quale il personaggio del titolo recita più parole di quante non ne dicano tutti gli altri personaggi messi insieme. È ragionevole supporre che con questo testo (del 1592) Shakespeare abbia guadagnato definitivamente la fiducia del “capocomico” Burbage e di conseguenza un posto in compagnia. Ma qui, nel Sogno? Qui sono tutti sullo stesso piano: una scelta assai desueta, per un uomo così meticoloso.
Va bene, va bene: la risposta c’è, ma prima facciamo un piccolo passo indietro: che succede nel Sogno di una notte di mezz’estate? Succede che un governante rozzo decide di sposare una donna molto esuberante e che per celebrare le loro nozze, una compagnia di artigiani-attori venga scritturata per recitare un dramma lacrimevole (di nome e di fatto) molto simile alla storia di Romeo e Giulietta. E già questo basterebbe a fare un copione. Ma Shakespeare era avveduto ma a volte non amava le cose troppe semplici. Sicché aggiunse due coppie di giovani amanti mal assortiti, i cui amori l’autore dipana e chiarisce proprio in vista del matrimonio e della recita. In modo da far sposare in un colpo solo non soltanto il governante rozzo e la sua donna esuberante, ma anche questi altri quattro qui. Solo che poi, per scombinare e ricombinare la relazione tra i quattro ragazzi, serviva un po’ di magia. E allora ecco che al matrimonio, alla recita e agli amori mal assortiti si aggiungono le magie di un tale che si crede principe dei folletti e litiga in continuazione con una che si crede la regina delle fate. Può bastare? No. Perché c’è un quinto livello: il servo di questo mago è un pasticcione che non ne combina una giusta e quindi i quattro livelli precedenti (lo sposalizio, la recita, gli amori, le magia) si sovrappongono e si confondono ulteriormente. E voi in questo questa confusione volete un protagonista assoluto? Sì, un protagonista assoluto avrebbe aiutato la comprensione del pubblico, ma Shakespeare aveva una particolarità che nessun altro autore teatrale ha avuto: scriveva per sé, per il proprio piacere. E se gli scappava di dare ordine a una storia eccezionalmente complicata, la complicava ancora di più per divertirsi ancora un po’ di più. Perché era convinto che divertire se stesso sarebbe stata garanzia di successo presso tutti. Già: Shakespeare, meraviglioso poeta, capace di immagini sublimi era in realtà uno spettatore-tipo. Un provinciale istruito ma avvezzo a mestieri rudimentali (il padre era commerciante di birra e conciatore), un cuore semplice dotato di concretezza e sguardo sopraffino: ciò che gli fece imbastire verità profondissimamente banali. Come la vita, insomma: spaventosa proprio perché sciocca e incomprensibile.
Così è il Sogno, pieno di assurdità. Il motore della vicenda è un “ragazzetto indiano” che il Signore dei folletti e la Regina delle fate si contendono: perché? Da quando? E per farci che? Senza contare tutti quei personaggi che sono annunciati ma poi non partecipano all’azione (una per tutti: la madre di Tisbe, regolarmente presentata nella commedia del comici, ma che poi non compare mai). Insomma: qual è la ragione di tutto questo? Metaforicamente, si possono spendere parole alte: Shakespeare mescola ad arte la confusione dei desideri degli uomini. Il “sogno” è inteso non solo nella sua accezione onirica, ma anche in quella relativa al vorrei ma non posso. Nel senso che qui tutto è possibile. Più prosaicamente, c’è un’altra chiave di lettura. Il Sogno è databile tra il 1594 e il 1596: sono anni in cui la compagnia dei Lord Chamberlain’s Men s’appresta a diventare una delle più importanti di Londra; la mano drammaturgica di Shakespeare sta per sfornare capolavori assoluti (Romeo e Giulietta, Il mercante di Venezia, Enrico V poi, poco più avanti Giulio Cesare e Amleto). Ebbene, è possibile che nel volgere d’un paio d’anni dopo la peste che tenne chiusi i teatri inglesi tra il 1593 e il 1594, Shakespeare abbia puntato a prendere in mano le redini della compagnia con l’idea di piegarla felicemente ai propri esperimenti. Morale: Sogno di una notte di mezz’estate è un capolavoro di regìa più ancora che di poesia teatrale. È quasi il biglietto da visita con il quale Shakespeare impose il proprio stile (appunto) anche registico. Sappiamo che invenzioni astruse come l’eccesso di monologhi, come la presenza in scena di fantasmi e spettri evocativi (che Shakespeare a quanto se ne sa recitava in prima persona) sono frutto del genio registico di Shakespeare. O, per meglio dire – poiché il “regista” propriamente detto è un’invenzione del Novecento – il frutto della sua capacità di condurre in parallelo la trama e la recitazione.
Ecco così spiegato– in conclusione – il punto di partenza da cui siamo partiti, Gioele Dix e io, nel tradurre e adattare questo testo. Abbiamo pensato prima allo Shakespeare regista e poi all’autore. Prima all’uomo di teatro e poi al “poeta” laureato che sancisce l’intoccabilità delle proprie parole. E del resto del Sogno originale abbiamo tre versioni coeve a Shakespeare (due in-quarto e il grande in-folio) ognuna della quale presenta differenze, novità e perfezionamenti rispetto alla precedente. Segno, lo sappiamo per certo, che dalla penna alla scena le battute di Shakespeare cambiavano anche parecchio, adattandosi alle peculiarità degli attori, al giusto precipuo del pubblico, alle mode intellettuali. È la legge del teatro, quella di adattarsi agli attori e al pubblico, prima di tutto: una legge alla quale il teatrante molto avveduto Shakespeare s’attenne sempre, meglio di chiunque altro. Noi abbiamo fatto lo stesso, sperando così di rendergli omaggio. Alla nostra maniera.