Molto tempo dopo, quando già il mondo era scosso da maree di violenza stupida, ripensando alla fatwa di San Valentino se ne è percepito il valore. E adesso si può capire che la deriva dell’ignoranza e dell’odio che sorregge i tumulti anti-occidentali di queste settimane nell’inverno dello scontento delle ex-primavere arabe, ebbe il suo primo vagito il 14 febbraio del 1989.Allora, si ricorderà, il leader morente della fallita rivoluzione (quante rivoluzioni fallite, nel mondo arabo!) degli sciiti iraniani condannò a morte Salman Rushdie, colpevole, a suo modo di vedere, d’aver offeso il dio della loro religione mediante un romanzo; un bel romanzo, per altro: I versi satanici. Certo, la fatwa del vecchio ayatollah era – in puro stile ottocentesco occidentale – un appello alla guerra lanciato solo per tentare disperatamente di ricompattare un popolo in libera uscita e vieppiù insoddisfatto delle promesse fatte e mai realizzate. Nel senso: è più facile sbandierare un nemico che buon governo. Ma di sicuro le diplomazie occidentali (fatta salva quella britannica, ferita nel vivo della propria carne, poiché Rushdie era cittadino di Sua Maestà) sottovalutarono l’evento: forse per realpolitik, forse per ignoranza, forse perché il senso profondo della condanna (la chiamata alla guerra santa ed eterna contro un modello culturale più evoluto) era troppo al di là degli stessi costumi sociali, culturali e politici dell’Occidente. Orecchio più attento pose alla questione la cultura internazionale ma, come vedremo, in sostanza si trattò di iniziative (quasi) personali, poiché per esempio la reazione del mondo editoriale fu piena di contraddizioni. Anche odiose, a volte.
A leggere lo splendido libro che Salman Rushdie ha dedicato a quell’evento (proprio all’evento, con annessi e connessi, non soltanto a se stesso, come dimostra la scelta felice di raccontarsi in terza persona) si capisce innanzi tutto una cosa molto importante. C’è una celebre storiella ebraica che narra di un uomo di lettere il quale, dopo aver trascorso molti anni della propria vita a tradurre in yiddish un’opera di Shakespeare, alla fine confida beatamente: «Sì, l’ho un po’ migliorata». Forse a conoscenza di questa leggenda, lo stesso Rushdie comincia la rievocazione della sua condanna dicendo poche parole sul libro che, per così dire, la causarono: non ho stravolto o offeso il Corano, semmai l’ho un po’ migliorato. Se ne deduce che Rushdie ha qualcosa che molti di noi occidentali hanno e pochi arabi (pochissimi tra chi comanda da quelli parti) hanno: l’ironia. La seconda cosa altrettanto importante che si capisce da questo libro è che mai come oggi l’ironia è un’arma spuntata contro l’ignoranza e la malafede. Ce lo dicono le immagini raccapriccianti di tanti disperati i quali, raggirati dal fanatismo e dall’inconsapevolezza sociale, bruciano bandiere americane e europee ritenendoci colpevoli di esercitare (sul nostro territorio, per altro) le libertà che abbiamo conquistato con secoli di lotta e sviluppo sociale, culturale, economico. Insomma, c’è poco da ridere ma, come dice Timone d’Atene di Shakespeare: «Disgraziato quel popolo che sa piangere solo per scherzo».
Ma andiamo con ordine. Il libro in questione si intitola Joseph Anton (tradotto da Lorenzo Flabbi per Mondadori, 652 pagine, 25 euro), essendo il titolo proprio il nome che Rushdie dovette adottare per “nascondersi”, immediatamente dopo la condanna a morte globale lanciata dalle autorità religiose iraniane in spregio a qualunque regola di convivenza internazionale. Joseph come Conrad e Anton come Cechov: anche nella più immediata, nella più assurda e irrazionale reazione alla situazione nella quale venne a trovarsi, Rashdie scelse di non tradire la propria vocazione letteraria. Anche per ribadire che la letteratura (la cultura, la fantasia…) è un diritto; che «la libertà è indivisibile», come ricorda lo scrittore citando J.F. Kennedy. Un libro lungo, che racconta in modo semplice una vita difficile, che descrive un dolore ingiusto e assurdo senza mai piangersi addosso: la dimostrazione che Rushdie era ed è meglio dei suoi accusatori: se non altro perché l’uno offre emozioni e fantasia alle persone per dilettarle e – magari – per aiutarle a crescere; mentre gli altri offrivano (e offrono tutt’ora) illusioni bugiarde alle masse per consolidare il loro proprio potere. È la stessa differenza che passa tra l’occuparsi solo di sé e il prosi il problema dell’altro da sé. Per esempio, c’è un episodio importante, forse dimenticato, che il libro riporta alla memoria in modo molto discreto, senza vanterie. Nel 1990 in Pakistan venne prodotto un film che doveva servire a smascherare l’ignominia di quello scrittore usando i suoi stessi mezzi. Il film si intitolava International Gorillay (che sta per “Guerriglieri internazionali”). Spiega lo scrittore: «Raccontava la storia di un gruppo di eroi locali – quelli che in seguito, con il vocabolario di un’epoca ancora a venire, sarebbero stati chiamati “jihadisti” o “terroristi” – che giuravano di uccidere uno scrittore chiamato “Salman Rushdie”. La caccia a “Rushdie” rappresentava l’azione principale del film e la sua morte era la versione tutta particolare di un lieto fine. Nel film “Rushdie” era descritto come un sadico ubriacone, perennemente attaccato alla bottiglia, che viveva in una specie di lussuoso palazzo su una specie di isola delle filippine, protetto da un esercito molto simile a quello israeliano e tramava nell’ombra per gettare nel caos il Pakistan con un sistema diabolico: corrompere quella terra pura e virtuosa aprendo una catena di discoteche e locali per il gioco d’azzardo». Il finale, come ce lo descrive fedelmente Rushdie, doveva essere il pezzo forte: «“Rushdie” viene finalmente ucciso, ma non da uno degli international gorillay, bensì dal Verbo stesso, che lo inceneriva con i fulmini scaturiti da tre grandi libri del Corano sospesi nel cielo sopra la sua tesa. Fritto personalmente dal Libro dell’Onnipotente: se non altro, una fine dignitosa», chiosa lo scrittore forte della sua ironia. Se non ché il film non ottenne il visto di censura: fu giudicato ovviamente un film calunnioso. Ragione per la quale si prestava a una causa per un risarcimento danni miliardario da parte del vero Rushdie. Lo scrittore, allora, dopo un lungo tormento scrisse una lettera al British Board of Film Classification nella quale si impegnava a non sporgere denuncia contro il film chiedendone la diffusione per evitare ogni sorta di censura. Il film così uscì regolarmente ma non fece una sterlina di incasso: «La gente, indipendentemente da quello che pensava di “Rushdie” con o senza le virgolette, non era così stupida da buttare via i soldi del biglietto per vedere robaccia del genere». Di solito, la libertà coincide con la saggezza e in questo modo Rushdie diede a suoi accusatori una lezione definitiva.
Adesso ci sembra di essere di fronte a un romanzo, a un eccesso da barzelletta: la condanna, i proclami, gli scontri, la vita blindata e distrutta di Rushdie… ma si tratta di cose maledettamente concrete. Intanto, per colpa della fatwa morirono molte persone: tra esse anche il traduttore giapponese del libro; mentre il suo editore norvegese venne ferito in un agguato così come capitò al suo traduttore italiano, il grande anglista e drammaturgo Ettore Capriolo. È qualcosa di più di un evento assurdo, di uno slittamento drammatico della politica e della ragione: la fatwa contro Rushdie è stata qualcosa di terribilmente concreto. Il libro Joseph Anton offre anche questa prospettiva: un uomo che improvvisamente, senza motivo alcuno, è costretto a fuggire, a nascondersi, a perdere contatto con gli amici, a diradare al massimo gli incontri con il figlio di dieci anni. E poi la diffidenza della gente, la fatica degli agenti costretti a proteggerlo, il coraggio di pochi amici, la codardia di alcuni editori che – vista la violenza che il morituro di Teheran aveva scatenato – si palleggiavano ogni responsabilità cercando di allontanare da sé ogni ulteriore rischio. Perché non è obbligatorio essere eroi né martiri della libertà. Dopo il 1989 divenne molto difficile per Rushdie continuare non solo a vivere, ma anche a essere se stesso: a essere uno scrittore. Il romanzo successivo a Versi satanici, Harun e il mar delle storie, un libro per ragazzi, nato espressamente per “risarcire” il figlio Zafar, fece una gran fatica a uscire perché molti editori erano assillati dall’eventualità di trovare anche in quella favola pericolosi riferimenti all’islam. Quasi che fosse una colpa spaziare con la propria fantasia. Perché questo è successo: che Rushdie fu messo in condizione di sentirsi colpevole. Leggendo le pagine di Joseph Anton mi è tornato in mente il più straziante dei libri di Primo Levi, I sommersi e i salvati, e in particolare il capitolo sulla “zona grigia”, quella nella quale si consuma una sorta di correità tra vittime e carnefici perché questi riescono a persuadere quelli di essere entrambi attori di un medesimo disegno. Parte del capitalismo occidentale (quello che fa affari con chiunque, senza porsi problemi morali di sorta) voltò le spalle a Rushdie che con il suo romanzo rischiava di creare seri problemi di mercato: della riluttanza della Penguin (il vecchio editore di Rushdie) s’è detto, si può ricordare che la British Airways negò allo scrittore di salire sui propri aerei… Naturalmente queste scelte diedero un senso (non la vittoria, per fortuna) al fanatismo islamico. Viene da chiedersi, oggi, quanto sia estesa, la nuova “zona grigia” che si è creata tra Est e Ovest.
Il romanzo che Rushdie scrisse dopo Versi satanici e che di fatto rimeditava quella sua terribile esperienza, L’ultimo sospiro del Moro, oltre ad essere uno dei suoi più problematici (poi venne la “liberazione” con La terra sotto ai suoi piedi) è quello che più concretamente pone al suo centro il tema dei temi di questa nostra umanità ignota a se stessa: un nomadismo che ci rende tutti “diversi” e pericolosi gli uni agli altri. Ossia: migranti perenni che dalla sovrapposizione di tradizioni e culture potrebbero trarre ricchezza ma che invece proprio dal timore di simili sovrapposizioni prendono spunto per radicalismi e violenze di ogni tipo. Ebbene, riflette qui Rushdie (parlando del sé di allora in terza persona, ricordiamolo): «Dunque, chi era? Innanzitutto un migrante. Un tale finito in un posto al quale non apparteneva. La migrazione strappa le radici del sé». Ecco l’ennesima lezione di questa storia e di questo libro: consapevoli o no, siamo tutti “migranti”; sarebbe utile accettare questo nostro destino. Lungo questa strada, le storie e la fantasia sono il vero bagaglio indispensabile, se non l’unico autentico. Parafrasando un’affermazione di Rushdie: «L’animale narratore è l’uomo, l’unica creatura sulla terra che si raccontava storie per capire qualcosa su se stesso. Le storie sono sue per diritto di nascita, e nessuno può togliergliele». Tanto meno con una fatwa.