Allora, siete keynesiani o liberisti sfrenati? E pensate che i tecnici sappiano gestire le emergenze meglio dei politici? La crisi ha riportato d’attualità un maestro dell’economia anche se qualcuno – fra gli esperti – lo ricicla come “causa” della crisi piuttosto che non come possibile solutore, tanti anni dopo. Dietro alle antiche tifoserie si nascondono due concezioni opposte della vita pubblica e della funzione dello Stato nell’epoca moderna: un dilemma tra privilegio e solidarietà che non è mai stato tanto attuale… Ebbene, sull’onda di questo nuovo dibattito, la casa editrice Adelphi ha cominciato a ripubblicare i testi di Keynes proponendoli come qualcosa a metà strada tra il documento storico e l’occasione di pura lettura: un’operazione felice, sia per le pagine che si sono potute leggere o rileggere sia per il successo che il mercato ha tributato all’iniziativa. Ultima uscita, in ordine di tempo, è Le mie prime convinzioni, un libricino prezioso (144 pagine, 12 euro), con la traduzione di Pierangelo Dacrema e Brunella Bruno e con un saggio di Giorgio La Malfa.
Le ragioni di interesse di questo libro sono tre e le vedremo tra breve; non prima di aver spiegato la sua genesi, così come raccontata dal curatore originale, lo scrittore David Garnett. Dunque, il volume di compone di due testi: uno dedicato alle trattative di pace dopo la fine della Prima Guerra Mondiale alle quali Keynes partecipò come esperto economico del governo britannico; l’altro come memoria degli anni in cui l’economista e alcuni suoi amici intellettuali incontrarono (e si scontrarono) con lo scrittore D.H.Lawrence circa nel 1915. Insomma, siamo nel pieno di un decennio di sconvolgimenti e di trapasso sostanziale dall’Ottocento al Novecento: quel passaggio cruciale al quale non solo Keynes ha contribuito fortemente, ma vi ha anche lasciato semi utili per il futuro dell’Europa. I due testi fanno parte di una lunga serie di memorie e conferenze private che l’economista era solito tenere per un ristretto cenacolo di amici: c’era la consuetudine, fra costoro, come fossero soci di un club riservatissimo, di scambiarsi ricordi ed esperienze (e segreti, all’occasione) per discuterne insieme; salvo che le informazioni dovevano rimanere riservate. Così è successo alla stragrande maggioranza dei racconti fatti da Keynes, tranne i due curati da Garnett e ora tradotti daa Adelphi: lo stesso economista aveva autorizzato, nel suo testamento, la pubblicazione di questi due soli testi tra i tanti destinati alle riunioni con i suoi amici. Dei due scritti, il primo, intitolato Melchior: un nemico sconfitto, è sicuramente il più interessante. Come si diceva, vi si racconta una fase cruciale della trattativa dopo l’armistizio della Prima Guerra: l’atteggiamento fortemente critico di Keynes nei confronti del rigorismo ai limiti del parossismo imposto alla Germania dalla Francia in quell’occasione (con una certa qual complicità britannica, tuttavia) è nota già dallo splendido libro Le conseguenze economiche della pace, con il quale lo stesso Keynes spiegò le ragioni delle sue dimissioni dal comitato britannico al tavolo della pace. L’economista predisse che quel trattato tanto duro nei confronti della Germania avrebbe aperto le porte ad anni di instabilità sociale e a una guerra ancora più dura di quella che si andava a chiudere: previsioni che si sono regolarmente, drammaticamente avverate prima con la depressione del Ventinove e poi con l’ascesa del nazismo in Germania nel 1933. Ma qui Keynes smette un po’ i panni dell’economista-diplomatico ed entra più nel merito per così dire umano della questione, raccontando facce, abitudini, rabbie e disperazioni dei tedeschi. Ma anche la sicumera dei francesi o una certa superiorità (quando non la supponenza) esposta dagli inglesi.
Si diceva che le ragioni di interesse di questo libro sono tre. Vediamo la prima: pari pari, nell’ossessivo vincolo di rigore imposto dai francesi al tavolo delle trattative (ai danni dei tedeschi) pare di rivedere a parti rovesciate quel che sta succedendo oggi nell’ambito dell’Unione europea. E Keynes lo spiega benissimo: la vicenda narrata da Melchior: un nemico sconfitto è la seguente: Gran Bretagna e Stati Uniti hanno derrate militari in eccesso da smaltire e invece di distruggerle vogliono proficuamente venderle alla Germania che è ridotta letteralmente alla fame. Tra l’altro, la formulazione dell’armistizio prevedeva che le forze vincitrici avrebbero provveduto a dare sostentamento al popolo tedesco. Alla vendita di cibo alla Germania si oppone la Francia. La Germania non ha nulla se non le proprie riserve d’oro per pagare gli aiuti: Parigi non vuole che quell’oro vada “sprecato” a soddisfare la fame del popolo poiché ritiene che esso, a malapena, basterà poi per riparare i torti di guerra subiti. Propone, quindi, che per pagare il cibo di cui ha drammatico bisogno la Germania ceda ai Paesi vincitori immediatamente e senza condizioni la propria intera flotta navale. Naturalmente la Germania nicchia, cerca di evitare l’annullamento della propria forza di mare, ma sarebbe anche disposta a cedere se almeno gli Stati Uniti le prestassero dei denari in modo da pagare le derrate nell’immediato con i soldi avuti in prestito e in futuro – forse, eventualmente, si vedrà – con le navi. Apriti cielo! Gli Usa non hanno soldi da prestare e comunque la Francia pretende subito, im-me-dia-ta-men-te la navi. E gli inglesi fremono perché vedono deperire le loro derrate… La trattativa langue finché Keynes non trova una soluzione. Inglesi e americani hanno ormai messo in minoranza i francesi: la Germania non può morire di fame quindi quelle derrate partiranno in qualunque caso. Ma Parigi pretende che i tedeschi, ancora prima di sapere dell’arrivo del cibo, diano piena disponibilità a cedere la propria flotta. E qui interviene Keyns che induce in segreto il suo omologo tedesco, un banchiere ebreo – Melchior, appunto – a convincere la delegazione tedesca a promettere la cessione delle navi in modo da sbloccare poi la situazione. E così vanno le cose.
A leggere la memoria dell’economista c’è da rabbrividire: la stupida tenacia rigorista di certe cancellerie nordiche – in questi mesi – si può millimetricamente sovrapporre al racconti di Keynes. L’esplosione neonazista in Grecia, per esempio, non può che essere letta in questa chiave. Ma che dire degli effetti che l’ossessione del rientro dal debito dei Paesi più esposti sta creando alla stessa Germania, oggi? Se Londra e gli Stati Uniti non avessero venduto le loro derrate alimentari alla Germania nel 1919, certamente le loro economie ne avrebbero risentito molto negativamente fin da subito, senza aspettare il 1929. Così pure oggi: il rigore imposto dalla signora Merkel e dai suoi alleati di ferro impedisce ai cittadini europei di comprare quei stessi prodotti tedeschi la cui strapotenza sul mercato comunitario è la sola ragione della solidità dei conti di Berlino. Queste sono le leggi del mercato, a chi piace. Che le dimentichino proprio coloro i quali lo venerano è quanto meno singolare. E la lucidità con la quale Keynes parla anche a noi europei del 2012 della necessità non solo di un’umanizzazione del mercato ma anche di un suo governo da parte dello Stato dovrebbe far riflettere molto.
La seconda ragione di interesse di questo libro è più italiana: godetevi la memoria “diplomatica” di Keynes e poi rileggetevi L’anno della Vittoria di Mario Rigoni Stern e di sicuro ne resterete molto colpiti: i due scritti – pur con tutte le differenze del caso – rappresentano due facce della stessa medaglia. Se Keynes stava dalla parte delle diplomazie le quali, vuoi per ridicolo puntiglio, vuoi per incapacità, non furono in grado di adeguare il proprio travaglio di potere alle esigenze delle popolazioni colpite nel vivo dai lunghi anni di guerra, Rigoni Stern sta sul fronte opposto, quello del popolo prima ferito poi abbandonato. Quel popolo che vuole ricominciare da se stesso, delegando il meno possibile a una classe dirigente che non ha avuto strumenti migliori che una guerra per sciogliere i nodi della politica. E così come ne L’anno della Vittoria la ricostruzione passa per un’alleanza trasversale tra un ufficiale illuminato costretto a combattere i propri stessi superiori e i valligiani che riescono a limitare o almeno mediare le proprie intemperanze, in Melchior: un nemico sconfitto Keynes è propriamente un «ufficiale» che contravviene alle regole rigide della politica per risolvere la fame del popolo tedesco che sta diventando drammatica. La lettura comparata di questi due libri così profondamente diversi ci dà tuttavia la prospettiva di un Novecento “che non è stato”: quello della ragionevolezza e del primato del buonsenso popolare. Se avessero vinto davvero i Keynes e i Rigoni Stern, forse il Secolo breve sarebbe stato meno sanguinoso e un po’ più lungo.
La terza e ultima ragione di interesse del piccolo libro di Keynes è particolarissima. I colloqui di pace si svolgono in giro per l’Europa continentale e hanno luogo per buona parte dentro vagoni ferroviari riadattati per l’occasione: le delegazioni nazionali vagano per il centro dell’Europa in treno, toccando le località più remote (e questo dà a Keynes la possibilità di descrivere facce, modi, abitudini spesso ben più efficaci di certa burocrazia politica). Ma la base dei colloqui è Parigi e a Parigi, di fatto, Keynes risiede nei lunghi mesi dell’inverno del 1919. Senonché a Paragi prende alloggio all’Hotel Majestic. Sì, ogni simenoniano sarà già saltato sulla sedia: Keynes è uno degli ospiti di quell’hotel che Simenon ha tante volte descritto nei suoi romanzi fino ad ambientarci una delle più affascinanti inchieste del Commissario Meigret: I sotterranei del Majestic. Il romanzo di Simenon si svolge tutto nei locali da lavoro del grande albergo di lusso: nell’andirivieni dietro infinite vetrate Maigret coglie la vita segreta di quel proletariato che sostiene, con i propri sforzi quotidiani, l’edificio artificioso di una ricchezza ostentata quanto di dubbia provenienza e moralità. D’altro canto, le vetrate descritte da Simenon (i suoi romanzi sono pieni di vetri, di finestre, di specchi, come a dire che la vita è solo un gioco di rifrazioni casuali) hanno due versi: non servono solo per studiare le abitudini della servitù; si può usare la prospettiva opposta e guardare all’acquario di tanti nobili più o meno spiantati, di tanti ricchi più o meno disonesti… Ecco, leggendo le righe svelte che Keynes dedica al suo alloggio parigino, pare di stare di qua dal vetro di Simenon e guardare giù verso quello zoo di veri e finti ricchi che si agitano nei saloni del Majestic. Un’occasione in più per apprezzare il rebus della complessità prima proposto e poi, con sorprendente semplicità, risolto da Keynes.