Nicola Fano

teatro e altre cose

Capogrossi al Guggenheim

Prokovief diceva che la musica, pur essendo basata solo sulle combinazioni possibili di sole sette note, non è mai ripetitiva. Schömberg per esagerare, allargò il campo ai cinque semitoni, arrivando a comporre sulla base di dodici “note”: ma il suo problema non era la ripetitività. Né lo è stato per Giuseppe Capogrossi: il suo segno (forchetta, pettine, artiglio, a seconda dei punti di vista) è unico ma le sue combinazioni non lo rendono mai ripetitivo. Semmai ossessivo.

L’ossessività è proprio ciò che traspare dalla splendida mostra (curata da Luca Massimo Barbero) che la Peggy Guggenheim Collection di Venezia dedica al pittore romano fino al prossimo 10 febbraio. Delle oltre settanta opere esposte, poco più di una decina sono figurative e appartengono agli anni precedenti la svolta dell’astrattismo: proprio questo passaggio è perfettamente testimoniato al punto che il visitatore capisce come Capogrossi non sia arrivato al “suo” segno per ispirazione ma per sottrazione. Un ciclo di finestre ritratte (sul finire degli anni Quaranta) segna questo passaggio: i segni da figurativi si fanno rarefatti proprio a identificare uno spazio: «Io cerco di ritrarre lo spazio dell’anima», diceva Capogrossi. Del resto dello stesso periodo (fine anni Quaranta) esistono molti disegni di Capogrossi, oltre a quelli qui in mostra, che dimostrano come egli anche ritraendo corpi (specie di ballerine) intendesse scovare linee e vuoti e pieni per dare senso allo spazio. Forse per questa ragione (ossia nella prospettiva della svolta spazialista del 1950), del percorso veneziano va apprezzato soprattutto l’avvio figurativo. Intanto perché espone le rare (e bellissime) grandi opere della stagione della «Scuola romana» di Capogrossi, poi perché lì dentro è possibile vedere l’occhio del pittore che arriverà al formalismo dell’astrazione. I canottieri (1933), Il temporale (1933), ma soprattutto lo splendido La piena sul Tevere (1933) sono opere che mostrano di aver digerito non solo la metafisica di De Chirico (per altro, passando dalla mostra alla contigua collezione Guggenheim permanente e fissando il magnifico dipinto La Torre Rossa del 1913 di De Chirico la relazione tra i due appare più evidente), non solo il Picasso neoclassico degli anni Venti, ma anche l’azzardo astrattista di Mondrian con il quale bisognerà imparentarlo direttamente quando passerà alle sue forchette. Guardate qui La piena del Tevere e ammirate la ricerca geometrica che sovrintende la foggia delle cabine della chiatta sul fiume: l’occhio di chi guarda è catturato da quelle linee grazie anche alla “metafisica” del fiume alto sugli argini e sull’assenza, in alto, del resto della città che, in natura, lì prevede pre lo meno platani e facciate di palazzi. E siamo diciassette anni prima della svolta.

La quale svolta se ha ragioni interne forti, ne ha anche con il dibattito dell’epoca: Capogrossi inventa un suo alfabeto con il quale racconta le sue storie ed esprime le sue metafore quando sembra che l’arte debba esprimere un linguaggio “nuovo” che vada oltre la semplice contrapposizione realismo-astrattismo (gli anni tra il 1948 e il Cinquanta sono in Italia quelli delle dispute intorno ai criteri dettati da Togliatti, quelli che convinceranno Guttuso ad abbandonare il suo sobrio ma bellissimo cubismo e che più avanti porteranno Giulio Turcato a dipingere il suoi Comizio astratto. Ebbene, in questa tempesta tra arte e politica Capogrossi non sta da nessuna delle due parti: sta nel suo mondo nel quale il segno (forchetta, pettine, ecc…) è un elemento primordiale attraverso il quale è possibile raggiungere ogni sorta di figurazione. Nella mostra veneziana ci sono alcune superfici che possono chiaramente esprimere una sorta di realismo magico: il segno di Capogrossi (soprattutto quando diventa più presente a se stesso, dagli anni Sessanta in poi) è la base con la quale il pittore dipinge figure, traslitterazioni della realtà che potrebbero essere accomunate alle invenzioni – poniamo – di un García Márquez: rotti gli argini della verosimiglianza (e a questo, per limitarci al Novecento, ci pensò Picasso) ognuno può trascrivere la realtà come meglio crede. I pettini di Capogrossi compongono serpenti, palazzi, abiti… diventano il punto originario che dà vita a una nuova geometria tramite la quale rappresentare il mondo e dargli nuove regole.

Si diceva dell’ossessione. Tante tele tutte insieme di Capogrossi dànno la misura della sua ostinazione interiore, della sua capacità di costruire un mondo parallelo che al proprio interno abbia un ordine suo proprio. È come per : una tenacità mostruosa di reinventare regole e metafore a partire da qualcosa che non ha a che fare con la realtà sensoriale alla quale siamo abituati. Può essere utile, a questo proposito, nel caso di una visita alla mostra che vi consigliamo caldamente, completarla con quella alla Collezione permanente del Guggenheim, perché Capogrossi sembra dialogare a distanza con alcuni dei pittori a lui precedenti e successivi. S’è detto di De Chirico e di Mondrian, ma confrontate le “forchette” con Mark Rothko o con Cy Twombly e vedrete come l’invenzione di Capogrossi abbia dato corso a trasfigurazioni tanto diverse tra loro. Il pittore romano ha creato dal nulla una lingua: un’accorta politica messa in pratica dal suo mercante di sempre, Carlo Cardazzo, lo ha condotto non solo a sup’erare i confini del nostro Paese, ma anche quelli del semplice linguaggio pittorico. Basti pensare all’uso del segno di Capogrossi nella moda, o nel design degli anni Sessanta quando la “forchetta” divenne un marchio di fabbrica italiano. Ecco: la mostra veneziana ci mostra quanto dietro quell’invenzione geniale ci fosse di inquieto e ossessivo. Al punto da dar corpo a un sistema di comunicazione che, pur basandosi su pochissime note, non è mai ripetitivo.